E’ oramai certa la notizia delle dimissioni dell’ On. Michele Traversa da Sindaco di Catanzaro dopo soli 8 mesi dalle elezioni amministrative. E’ una notizia che colpisce un po’ anche emotivamente, anche vivendo quotidianamente lontano dalla città, proprio perché le proprie origini e il proprio territorio sono sempre e comunque nel cuore, proprio perché sopita cova dentro – nonostante tutto - quell’idea sbiadita di avere la possibilità di vivere laddove si è nati, laddove con uno sguardo abbracci l’infinita libertà del mare e il profilo sensuale dei dirupi montani.
Colpisce specie quando in alcune occasioni si è deciso di tornare, di provarci, di investire le proprie energie; e quando in altre occasioni, come nell’ultima campagna elettorale delle amministrative, si decide di appoggiare ufficialmente delle persone “nuove”, di scommettere su un futuro diverso, quanto meno di scommettere su una nuova battaglia da intraprendere, consci dei rischi e delle difficoltà enormi che una città del sud ti pone davanti.
E tornano in mente i ricordi di quei mesi entusiasmanti in cui persone, prima lontane, si riavvicinarono alla città e alla politica, decisero di scommettere di nuovo; giovani catanzaresi che, da tante città d’Italia e non, soffiavano con tutto il loro respiro per gonfiare le vele della città per intraprendere una nuova rotta. E tornano anche alla mente le critiche pungenti, sarcastiche, le definizioni che molti – politici e non – davano di questo movimento: “alieni” erano, eravamo. Salvatore Scalzo era un alieno venuto da Bruxelles, accompagnato evidentemente da altri alieni provenienti da chissà quali galassie sconosciute.
“Ma cosa dovrebbero fare queste persone, inesperte, saccenti; cosa ne sanno della città, cosa sapranno mai di politica! Ma cosa volete: andatevene! Tornate da dove venite, chi credete di essere!”.
Ricordo che qualcuno, cittadini comuni (purtroppo anche giovani come me), attraverso i social network
incalzava anche me. “vai, vai! Tornatene a Roma!” come se vivere a Roma, o in un qualunque altro posto, fosse stata una colpa, una macchia. “voi che ve ne siete andati…”.
Si, noi che siamo andati via, noi che magari non avevamo la possibilità di avere un lavoro che ci permettesse di vivere. Noi che desideravamo semplicemente costruirci una vita da liberi, senza dovere eterna riconoscenza a qualche capetto o qualche politico di turno. Noi che non avevamo magari famiglie abbastanza ricche da poter essere mantenuti da esse. Noi che non volevamo essere mantenuti dalle famiglie perché credevamo che essere adulti significasse essere indipendenti. Noi che abbiamo voluto aprirci al mondo esterno per apprendere e poi riportare a casa ciò che si imparava. Noi che abbiamo avuto allungato le braccia verso l'Europa, tenendo sempre lo sguardo rivolto al nostro sud.
Si, noi “alieni”, noi che non siamo stati scelti dai cittadini catanzaresi; noi figli di una città e di una terra amara che non ci ha voluti, né quando c’eravamo, né quando volevamo tornarci.
La città ha preferito coloro che proclamavano amori fedeli e passioni intramontabili, coloro per i quali amare una città significava giusto amarne una squadra di calcio e non i suoi abitanti; coloro per i quali amare una città significa depredarne le risorse, naturali, culturali, economiche; o peggio illuderla promettendo cieli azzurri e prati in fiore. O ancora peggio abbandonarla davanti alle prime difficoltà incuranti del destino d ei suoi abitanti.
Questo è l’amore “indigeno” rispetto a quello degli “alieni”?
Ed ecco l’epilogo: un “sogno” mal composto eppure vincitore: una cicala che, dopo aver scorazzato vanitosa nei mesi estivi davanti gli arenili – asfaltati - di Giovino, muore all’arrivo del primo inverno.
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